Passaggio in Libano tra i cecchini

Era il Passaggio del Museo. Lo attraversava trattenendo il fiato solo chi aveva delle ragioni forti per farlo perché quelli erano i duecento metri più pericolosi della città più pericolosa del Medio Oriente di allora: fra i quartieri cristiani a Est e quelli occidentali musulmani. Una terra di nessuno sulla quale tutti potevano sparare. Di solito si stabiliva un breve cessate il fuoco – dalle… alle… – ma nessuno poteva esser certo che sarebbe stato rispettato.

Si chiamava Passaggio del Museo perché lì c’era il Museo nazionale. Ma non capitava quasi mai di soffermarsi sul secondo aspetto della toponomastica. L’istinto di conservazione imponeva la concentrazione su altro: i cecchini, invisibili ma presenti; lo stato d’animo dei miliziani di guardia ai due posti di blocco opposti, all’inizio e alla fine della terra di nessuno.

C’era la bella facciata art decò anni 30. Ma era stata scrostata da migliaia di proiettili come le altre case di quel luogo sfortunato, il muro di cinta del vicino ippodromo, ciò che restava del selciato e dei lampioni contorti. Un day after che si rinnovava ogni giorno. E anche dopo il 1990, quando la guerra civile libanese finalmente cessò, per chi l’aveva vissuta quello restava l’ex Passaggio del Museo, non l’angolo tra la Pierre Gemayel e la via di Damasco, dove c’è il Museo nazionale del Libano.

Come per affrancare la mente da un’ossessione latente da decenni, quasi 30 anni più tardi ho deciso di entrare nel museo e incontrare il “mio cecchino”. Quanto meno il suo fantasma. Era appostato vicino all’angolo al piano terra del museo dal quale poteva tenere sotto tiro chiunque venisse dalla cristiana Ashrafieh per andare nella musulmana Mazraa e viceversa. Spesso al cecchino non importava conoscere la setta della vittima nel suo mirino di precisione: lui doveva diffondere il terrore, impedire che in quel caos durato dal 1975 al ’90 qualcuno intrattenesse rapporti con l’altra parte. Quell’anelito di melting pot gli era insopportabile.

Il cecchino aveva fatto un buco nel muro del museo, ignorando il mosaico del Buon Pastore, del V secolo dopo Cristo. Il buco che ha deturpato quella bellissima allegoria è ancora lì. Il museo lo ha solo tappato, decidendo di trasformarlo nel suo ricordo della lunga guerra civile. Anne-Marie Afeiche, la conservatrice del museo, ne è in un certo senso orgogliosa. Questo è un Museo nazionale nello stretto senso del termine: dall’archeologia preistorica al XVIII secolo ottomano, ci sono solo reperti libanesi, scoperti scavando questa terra. Anche se fuori dall’epoca storica di sua competenza, il museo non poteva ignorare un evento così determinante come la guerra civile. «Era diventato un edificio strategico occupato da tutte le milizie, preso dall’esercito siriano e poi da quello israeliano, fra una battaglia e l’altra, centinaia di profughi hanno trovato un rifugio», spiega Madame Afeiche.

Bene ordinato, luminoso, su tre piani, il museo non è enorme ma ha alcuni pezzi unici al mondo. Il sarcofago di Ahiran re di Byblos, del X secolo avanti Cristo, mostra il primo esempio quasi completo dell’alfabeto fenicio, 16 lettere su 22. Per gli studiosi è stato l’equivalente fenicio della Stele di Rosetta; tre millenni fa per quel popolo di mercanti l’alfabeto che sintetizzava i dialetti delle città-stato del Mediterraneo, rappresentò una rivoluzione tecnologica. C’è il Colosso di Byblos, primo secolo dopo Cristo. E la Tomba di Tiro, datata 64 dopo Cristo, un capolavoro che toglie il fiato: come sapeva fare il cecchino del Buon Pastore, ma in maniera più salutare per le coronarie e l’anima.

La tomba sarà l’attrazione principale del nuovo seminterrato, interamente dedicato all’arte funeraria. Ci sarà anche la selezione più grande del mondo di sarcofagi antropoidi, fra il VI e il IV avanti Cristo; e un’esposizione di mummie del periodo mamelucco, trovate in una grotta sulle montagne del Libano. Il rinnovo del seminterrato che non è stato più riaperto dal 1975, quando il museo si trasformò nel Passaggio del Museo, è finanziato e curato dalla Cooperazione italiana. Giorgio Capriotti dell’Università della Tuscia, si sta occupando del restauro degli affreschi della Tomba di Tiro; l’architetto Antonio Giammarusti è il responsabile del progetto. «L’Italia ha stanziato più di un milione di euro», dice con modestia Anne Marie Afeiche. «Sono commossa se penso a quante opere avete in Italia». Se non ci saranno ritardi, la sezione verrà inaugurata a maggio e per la prima volta dopo 46 anni il Museo nazionale tornerà al pubblico nella sua interezza.

La prima riapertura parziale era avvenuta nel 1995. Chiuso di nuovo l’anno successivo, il piano terra e il primo piano erano stati riaperti nel ’99. Ma il miracolo è che allora e oggi ci siano cose da guardare. La barbarie del Medio Oriente di oggi è definita dalle mazze e dagli esplosivi dell’Isis in Mesopotamia e a Palmyra, dall’iconoclastia in parte reale, in parte pretesto per il mercato nero dell’arte antica. Come la città della regina Zenobia nel deserto siriano aveva Khaled al Asaad, anche Beirut ha avuto il suo eroico custode: Maurice Shehab, il primo direttore del Museo nazionale, predecessore di Anne Marie Afeiche. Appena scoppiò la guerra civile, Shehab spostò tutti i pezzi trasportabili nel seminterrato che sigillò come una piramide egizia. Gli altri, le opere più pesanti e pregiate del piano terra, li rese ancora più intrasportabili, imprigionandoli dentro blocchi di cemento. Milizie e soldati passarono per un quindicennio provocando pochi danni e facendo sparire pochi pezzi. «In questa sala c’erano solo blocchi di cemento e nessuno sapeva cosa ci fosse dentro», spiega Madame Afeiche. «Solo lui, solo Maurice Shehab lo sapeva». Avrebbero dovuto torturarlo per fargli dire a quale opera corrispondeva ogni blocco di cemento.

Ma non lo fecero, il direttore del museo è morto in pace pochi anni fa. E questo è stato determinante per la realizzazione del suo miracolo. Non sarebbe stato possibile se la guerra libanese, nella sua brutalità anche peggiore di quella siriana (in proporzione agli abitanti il Libano ebbe più morti e più profughi), fosse stata abitata dalla religione e i suoi demoni, come le guerre di oggi. Nella Beirut Est c’erano i cristiani, a Ovest i musulmani. Ma erano definizioni imprecise, quelle ideologiche lo erano di più: destre a Est, sinistre a Ovest. «Per gli uni e gli altri il museo non fu mai un luogo di scontro religioso, un obiettivo culturale», conclude Anne Marie Afeiche. «Non fu mai un museo ma sempre e solo una postazione strategica». Perché anche il male ha distinzioni importanti.