Il familiare diventa estraneo e l’esperienza intima si fa globale. La Tate Modern racconta 35 anni di attività di una delle artiste più apolidi e conflittuali della nostra epoca
In mostra trentacinque anni di pensieri radicali, poetica ed arte. Trentacinque anni di riflessioni ed espressioni sulle tematiche del genere, della razza e della politica che hanno preso forme video-artistiche, performative, scultoree e installative. Parliamo di Mona Hatoum e della monografica a lei dedicata nelle sale della Tate Modern di Londra, seconda tappa di un percorso espositivo iniziato l’anno scorso al Centre Pompidou di Parigi e che vedrà il successivo passo al Kiasma Museum of Contemporary Art di Helsinki nel 2017.
Nata a Beirut nel 1952, a Londra dal 1975, Mona Hatoum è sinonimo di impegno a trattare temi difficili e conflittuali – come la violenza e l’oppressione – e a farlo ricorrendo anche al corpo umano, alla sua vulnerabilità e alla sua capacità di ripresa. La sua arte esplora la sottile linea che esiste tra il famigliare e l’estraneo, tra ambiente domestico ed ostile, in espressioni artistiche che spesso uniscono gli opposti, come la bellezza e l’orrore, scatenando in noi – come in questa esposizione – sentimenti conflittuali che stanno tra il desiderio e la repulsione, la paura e l’esserne affascinati.
I lavori in mostra non seguono un ordine cronologico, ma si presentano come una serie di riflessioni, idee, tesi riguardo al mondo. Giustapposte le une alle altre, mostrano la grande varietà espressiva dell’artista: le performance degli anni ’80, uno strumento che permette di collocarsi fuori dal “sistema arte”, lavorando con “un corpo” che non è definito meramente dai suoi stessi confini fisici ma viene considerato in riferimento a uno spazio sociale e definito da un contesto culturale. Le installazioni e le sculture che dalla fine degli ’80 propongono un ripensamento del linguaggio minimalista introducendo temi politici e critici per mostrare le complessità insite nel mondo di oggi. Gli oggetti domestici che nei primi anni ’90 vengono trasformati dall’artista in qualcosa di misterioso e straniero. Un linguaggio che sta tra il minimalista e il surrealista e che, allo stesso tempo, entra in dialogo con “le cose del mondo”, mostrando in tal modo dei contatti anche con l’Arte Povera e con certi lavori post-minimalisti. E infine l’intento presente in tutto il suo lavoro di coinvolgere lo spettatore sollecitando in lui una risposta fisico-emotiva verso ciò che si sta guardando.
Nel lavoro della Hatoum si ha la sensazione di immergersi nel vivo di un discorso. L’andamento della conversazione è cangiante, a volte il linguaggio è sottile, altre il tono della voce cresce e ci fa scontrare-incontrare con qualcosa che scuote. Non si può rimanere estranei a ciò che si vede, ne siamo assorbiti, tanto che in Corps étranger 1994 si è risucchiati all’interno dell’artista stessa. Si sta tra il disorientato e il claustrofobico in Light Sentence 1992, minacciati in Homebound 2000, surrealisticamente stupiti in Jardin Public 1993, “scottati” dalla consapevolezza che tutto il mondo è una “zona rossa” in Hot Spot 2013. Il lavoro di Hatoum ci fa sentire in bilico tra forze opposte (+and- 1994/2004), invitati a partecipare a delle esperienze intime e globali (Measures of Distance 1988), esperienze che – in questo particolare momento per il Regno Unito – fanno riflettere.
Hatoum ha vissuto una vita da esule, il suo trasferimento a Londra nel ‘75 è legato allo scoppio della guerra in Libano. Quella che doveva essere una semplice visita inglese si è trasformata nella sua casa, una città che l’ha accolta in un Paese che oggi, invece, sta chiudendo le sue porte all’esterno. In una strana coincidenza di eventi e tempistiche, questo porta ulteriore enfasi su alcune opere in mostra e in generale sull’attività della Hatoum, nel cui lavoro si respira un sentimento diasporico, connesso al senso di estraneità, alterità e dislocazione gravitante intorno a questioni sociali di tal genere. In Twelve Windows 2012/13 – un lavoro realizzato in collaborazione con l’organizzazione non governativa libanese Inaash, attiva dal ’69 per aiutare le donne nei campi di rifugio – dodici tessuti ricamati diventano windows libranti nella stanza. Ogni finestra con la sua trama e il suo motivo rappresenta una regione chiave della Palestina e apre la visione dello spettatore alla cultura di un popolo e alle sue tradizioni, come per l’appunto la tecnica del ricamo.
Se Edouard Glissant e Patrick Chamoiseau in L’intraitable Beauté du monde, scrivevano che non ci può essere forza se non nella Relazione, “un potere questo che appartiene a tutti […] e se ci sono stati confini che hanno separato e diviso, ce ne saranno altri che differenzieranno e collegheranno, differenziando solamente per connettere”, allora è questo ciò che si vede attraverso le dodici finestre della Hatoum, ed è questo che ci piacerebbe sperare di poter osservare un giorno al di là delle nostre finestre. Che siano a Londra, a Beirut o in qualsiasi altro luogo del mondo.
Diletta Cecili