Le indagini sulla violenta esplosione che, il 4 agosto 2020, ha devastato il porto della capitale libanese, Beirut, sono state nuovamente sospese, dopo che il giudice che si occupa del caso, Tarek Bitar, è stato oggetto di ricusazione.
La notizia è stata diffusa il 27 settembre, a seguito di una richiesta presentata da un ministro dell’ex governo libanese, che ha portato il giudice istruttore della Corte di giustizia, Bitar, ad annullare l’interrogatorio di un ex generale dei servizi di intelligence militare, previsto per lunedì stesso, e a sospendere le operazioni collegate alle indagini. Secondo quanto riportato da fonti libanesi, la ricusazione è stata presentata dai legali dell’ex ministro dell’Interno, Nohad Machnouq, sulla base di una presunta parzialità del lavoro di Bitar, dopo che lo stesso giudice ha convocato l’ex ministro per un interrogatorio, il primo ottobre. Tale mossa, per Machnouq, contraddice la Costituzione e le procedure giudiziarie per presidenti e ministri.
L’inchiesta sull’incidente di agosto 2020 era già stata sospesa a dicembre 2020, quando è stato rimosso il giudice Fadi Sawan, allora titolare dell’indagine, anche in tal caso a seguito di pressioni da parte di alti funzionari libanesi, accusati da Sawan di negligenza. Ora, spetta alla Corte d’appello di Beirut approvare o meno la richiesta di ricusazione. La rimozione di Bitar, se dovesse essere accettata, rischia di porre definitivamente fine alle indagini sull’incidente di Beirut, in quanto è improbabile che un terzo giudice decida di assumere l’incarico. Il tutto alimenta la rabbia dei familiari delle vittime, i quali, insieme a 145 organizzazioni libanesi e internazionali per i diritti umani, hanno invitato il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a istituire una missione di indagine internazionale indipendente e imparziale, vista la incapacità mostrata dalle autorità locali.
La nuova ricusazione è giunta in concomitanza con una crescente campagna contro Bitar portata avanti da esponenti politici libanesi, in risposta alle mosse del giudice stesso. A tal proposito, è del 16 settembre un mandato di arresto in contumacia nei confronti di un ex ministro dei Trasporti e dei Lavori Pubblici, Youssef Fenianos, il quale, accusato di “presunto dolo, negligenza e cattiva condotta” in relazione all’esplosione, si è rifiutato di essere interrogato. L’interrogatorio era previsto inizialmente per il 6 settembre, ma era stato successivamente rinviato al 16 settembre, sulla base di due ricorsi presentati dall’avvocato dell’ex ministro, a loro volta legati a presunti vizi formali della richiesta di interrogatorio. Dopo che Fenianos non si è presentato neanche all’interrogatorio di giovedì, Bitar ha emesso il mandato di arresto.
Come specificato da fonti libanesi, l’istanza presentata dagli avvocati di Machnouq mira a far guadagnare tempo agli ex ministri in vista della riunione del Parlamento prevista per il 19 ottobre. Da tale data, gli indagati saranno nuovamente protetti dall’immunità istituzionale di cui oggi sono sprovvisti, a causa della transizione tra il governo uscente e il nuovo. Finora, 25 persone sono state detenute in relazione all’esplosione del 4 agosto 2020, perlopiù lavoratori e funzionari portuali di livello inferiore e medio, oltre ad alti rappresentanti istituzionali e della sicurezza libanese. Tredici sono stati rilasciati, mentre il responsabile doganale, Badri Daher, e il capo dell’autorità portuale di Beirut, Hasan Kraytem, sono ancora detenuti. In tale quadro, il ministro dell’Interno custode, Mohamad Fahmy, non ha concesso l’autorizzazione a perseguire il capo dell’agenzia di Sicurezza Generale, il maggiore generale Abbas Ibrahim, così come richiesto dal giudice Bitar.
È stato quest’ultimo a chiedere, il 2 luglio, di annullare l’immunità anche per l’ex ministro delle Finanze, Ali Hasan Khalil, l’ex ministro per i Lavori pubblici, Ghazi Zaiter, e l’ex ministro dell’Interno, Nohad Machnouk. Questi, a detta di Bitar, potrebbero essere accusati di negligenza e possibile tentato omicidio e, pertanto, è stato richiesto di sottoporli a interrogatori. Tuttavia, l’8 luglio, alcuni deputati libanesi hanno chiesto maggiori prove prima di revocare l’immunità e consentire di interrogare i funzionari governativi e, ad oggi, questi non sono stati ancora sottoposti a interrogatorio.
A un anno di distanza dall’esplosione che, il 4 agosto 2020, ha devastato il porto di Beirut, Human Rights Watch, un’organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, ha pubblicato un rapporto, in cui punta il dito contro alti funzionari politici e della sicurezza libanesi. Il rapporto, di 127 pagine, è stato intitolato: “Ci hanno ucciso dall’interno”, con riferimento alle autorità del Libano, ritenute essere responsabili della presenza di quasi 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio presso il porto della capitale, la cui esplosione ha provocato 218 morti, circa 7.000 feriti e oltre 300.000 sfollati.
Nel mirino di HRW vi sono i funzionari del Ministero dei Lavori Pubblici e dei Trasporti, i quali sono stati avvertiti del pericolo, ma non sono riusciti a comunicarlo correttamente alla magistratura o ad indagare adeguatamente sulla potenziale natura esplosiva del carico della nave attraccata nel 2013. Questi hanno poi immagazzinato consapevolmente il nitrato di ammonio, insieme ad altri materiali infiammabili o esplosivi, per quasi sei anni, in un hangar scarsamente protetto e poco ventilato, in un’area commerciale e residenziale densamente popolata, contravvenendo alle linee guida internazionali per lo stoccaggio e la gestione del nitrato di ammonio. Inoltre, secondo quanto riferito, i suddetti funzionari non sono riusciti a supervisionare adeguatamente i lavori di riparazione intrapresi nell’hangar 12, che potrebbero aver innescato l’esplosione del 4 agosto 2020.
Piera Laurenza, interprete di arabo
fonte sicurezzainternazionale