Nelle università corsi ai rifugiati per salvare il patrimonio culturale

Dal Monastero Sant’Elia di Mosul ai villaggi assiri della valle del Khabour, alle chiese della piana di Ninive. Tra i rifugiati dei campi profughi ci sono funzionari, docenti, archeologi, conservatori che hanno visto distruggere l’archivio dei musei in cui lavoravano, quando non i monumenti o le opere d’arte. Ora potranno formarsi in Italia per diventare esperti della sicurezza del patrimonio culturale dai danni del tempo, dal commercio illegale e dagli attacchi dell’uomo. E poi, tornare nei loro Paesi per avviare la ricostruzione a partire dalla cultura.
CORRIDOI EDUCATIVI
È il cuore del progetto X-Team, istituito dal Politecnico di Torino, le università Ca’ Foscari e Iuav di Venezia, gli istituti Siti e Corila. Ed è uno dei progetti modello dell’impegno dell’Italia per creare «corridoi educativi» per rifugiati e richiedenti asilo. Il nostro è il primo Paese ad aderire concretamente all’idea dell’Europarlamento di mettere in rete le Università per consentire a chi fugge dalla guerra di continuare gli studi, come ha spiegato il ministro Stefania Giannini: «E questo ci rende orgogliosi».

Il progetto pilota partirà a settembre e coinvolgerà cinquanta studenti dai Paesi in guerra, in particolare profughi o sfollati dalla Siria, già arrivati in Italia, o ospitati nei campi in Paesi come Libano e Giordania. Per otto mesi seguiranno corsi intensivi sui beni culturali, prima in Piemonte, nel monastero di Santa Croce di Bosco Marengo, poi in Veneto.

Non solo Palmira, sotto attacco dell’Isis. In Medio Oriente «si sta consumando un genocidio culturale finalizzato alla distruzione delle opere», dicono gli organizzatori. La formazione sarà «su temi interdisciplinari, dall’architettura alla tecnologia dell’informazione, passando dalla scienza dei materiali», dice Marco Gilli, rettore del Politecnico di Torino. Si parlerà di temi come la cartografia, la ricostruzione di un archivio museale, le moderne tecniche di sopralluogo con i droni. Verranno coinvolti anche gli incubatori d’impresa, per creare posti di lavoro «nella prospettiva di un ritorno a casa con dignità».

«A difendere le opere ci deve pensare l’esercito – aggiunge Romano Borchiellini, presidente dell’istituto Siti – ma gli esperti che formeremo dovranno presidiare e ricostruire». Il primo ostacolo sarà quello burocratico: come accertare le competenze dei profughi. Al Politecnico di Torino ad esempio i rifugiati, non potendo presentare documenti come il diploma, vengono iscritti «sub condicione». La condizione è che «prima della laurea il loro Paese o il nostro Ministero garantiscano per loro».

GLI OBIETTIVI
Il progetto «costerà un milione e mezzo di euro: per ora lo finanzieranno direttamente gli atenei, ma il Ministero e l’Europa ci appoggeranno», dice Gilli. Lo scopo del progetto è formare personale che possa salvaguardare i beni culturali «sul posto, o portarli via se possibile quando c’è una minaccia». Ma il primo obiettivo è far riprendere gli studi. Perché non c’è solo il dramma dei monumenti rasi al suolo. C’è lo sfilacciamento dei rapporti, l’interruzione della catena di formazione e di studio che impoverisce ancora di più i Paesi in guerra.