Dal Libano un milione di storie, la mia storia

BEIRUT (primo giorno) – Mentre andiamo verso la nostra prima riunione con il Vice Delegato dell’UNHCR in Libano, osservo la città. Questo è il posto dove la famiglia di mio padre si è rifugiata quando sono stati costretti a fuggire dall’Egitto nel 1956. Queste sono le sensazioni, gli edifici, i suoni, i profumi e l’energia con i quali è cresciuto mio padre. Meravigliata di fronte ai misteriosi colli e alle montagne che circondano Beirut, penso a quando mio padre è stato rapito per un paio d’ore durante la guerra civile esplosa negli anni ’70. Questo è il paese dove le persone sono conosciute per la loro generosità, la ricchezza e la diversità della loro storia e delle loro tradizioni. Questo paese al momento accoglie oltre 1 milione di rifugiati siriani, un quarto della sua popolazione.

Prima di continuare vorrei però condividere un dettaglio che ritroverete nel seguito di questo diario. Il mio cognome, Sednaoui, è siriano e significa ‘provenienti da Sednaya’, una cittadina costruita attorno a un monastero a 40 km da Damasco, da dove la mia famiglia si è trasferita da varie generazioni. Il primo posto verso il quale vengo guidata è uno dei quattro centri di registrazione nel paese, dove i rifugiati possono aggiornare il file contenente i dati sulla loro famiglia. A esempio, possono registrare la nascita di un bambino, o comunicare se c’è qualcuno che ha bisogno di assistenza medica o giuridica.

Lì incontro una coppia arrivata per aggiornare il proprio profilo familiare presso l’UNHCR aggiungendo la loro bambina appena nata. Quando le famiglie vengono nei centri UNHCR per aggiornare i propri file, ricevono anche supporto e assistenza per ottenere la registrazione ufficiale della nascita presso le autorità libanesi, un processo che può essere lungo e difficile. Se non viene completato entro il primo anno d’età, c’è il rischio che quel bambino, sulla carta, possa “non esistere”. La loro figlia aveva già 8 mesi. Il padre mi dice che prima di arrivare qui è si è trasferito due volte all’interno della Siria. L’ultima città in cui ha vissuto è proprio Sednaya che, mi racconta, è stata una delle ultime città a cedere alla violenza. Lì lavorava in un ristorante, ma è stato costretto a fuggire per mancanza di opportunità e libertà di movimento. Tutte le strade, dentro e fuori la città, erano state bloccate. Ha incontrato la fidanzata in Siria, si sono sposati in Libano.

Mi chiedo quanta forza serva per vivere quest’orrore e l’estrema delusione. È una situazione così complessa da affrontare. È ancora più difficile da capire quando ci si trova seduti lì, di fronte a chi è stato costretto ad abbandonare la propria casa ed è difficile quando il compito è di raccontarla, questa storia.

Dopo aver lasciato il centro, proseguiamo verso il Nord del Libano per incontrare Mahiya: ha 28 anni, la mia stessa età, cinque figli sotto i 10 anni e non ha notizie di suo marito da ormai 4 anni. Non sa se sia vivo, se sia imprigionato o torturato. È stata costretta ad abbandonare la Siria senza il suo compagno di vita, fuggendo insieme a sua suocera disabile, sua cognata ed altri bambini i cui genitori sono rimasti in Siria. Parlando con lei, scopro che Sednaya è conosciuta anche per la sua prigione. Non ne avevo mai sentito parlare, ma si dice che al momento detenga oltre 4.000 prigionieri. Mahiya mi racconta che un giorno, dopo anni di silenzio, qualcuno le ha detto che aveva visto suo marito in quella prigione. A quel punto decise di tornare proprio lì, in Siria, per fare chiarezza sulla situazione del marito. Le sarebbe bastata anche una sola parola, per lei e per i suoi figli. Quando è arrivata, le autorità le hanno detto che non avevano nessuna informazione sul marito. Per settimane nessuno ha saputo darle una risposta. E così, sola, è tornata, verso il Libano. Nel frattempo le leggi erano cambiate e Mahiya si ritrovò bloccata per diversi mesi alla frontiera. Quanta forza ha Mahiya dentro di sé. Così gentile e paziente con i suoi bambini. Nonostante tutto quello che sta passando, lotta e riesce a mandarli a scuola.

Il secondo insediamento che visitiamo si trova in un’ex località turistica balneare oggi ridotta in condizioni deplorevoli. C’è ruggine ovunque, dalle pareti ai balconi, dai ventilatori ai bagni. Facciamo visita a Samer. Vive qui da 3 anni con la moglie e i cinque figli, tra cui un neonato. Con loro c’è anche sua sorella, ripudiata dal marito dopo 25 lunghi anni di matrimonio perché non riusciva a dargli un figlio. La tensione e la timidezza svaniscono poco dopo aver cominciato a parlare, di fronte a una deliziosa tazza di caffè preparata per noi dalla famiglia. Ridiamo e piangiamo. Che calma e che calore provo mentre la più piccola si addormenta nelle mie braccia.

Mi raccontano che i sussidi economici che ricevono da UNHCR e dal Programma Alimentare Mondiale coprono a fatica i bisogni primari della famiglia, e i figli più grandi sono costretti ad andare a lavorare. Mostafa, 14 anni, ora lavora in una macelleria nella zona. La sua è una storia di successo: i proprietari gli hanno insegnato il mestiere ed hanno contribuito ad integrarlo: gli è stato offerto un aumento di stipendio e lo invitano spesso a casa loro per mangiare e stare insieme. Gli occhi del figlio più grande, anche lui costretto a lavorare, sembrano invece più tristi e tormentati.

La moglie di Samir è affettuosa e loquace. Ci racconta che a volte riesce a comunicare con la sua famiglia che è rimasta in Siria, quando la connessione funziona, ma che spesso preferisce non parlare perché la conversazione finisce sempre in lacrime. Il tempo stringe, e prima di andare sento l’impulso di abbracciare i due adolescenti, e di raccontar loro che anche io, a 14 anni, ho dovuto iniziato a provvedere a me stessa. Le mie circostanze erano diverse, ma quel senso di ingiustizia e responsabilità è lo stesso. Dico loro che le sofferenze che viviamo ci rendono persone più forti e che spero che un giorno potranno trasformare la durezza di quest’esperienza in qualcosa di utile a loro stessi e agli altri. Dico loro che devono essere fieri di loro stessi.

Al ritorno in albergo mi sento estremamente inquieta. Una piccola goccia in un oceano. Come possiamo vivere con i nostri privilegi? Non voglio e non posso stigmatizzare il privilegio, perché non decidiamo noi dove nasciamo. La domanda è: come si vive sapendo che le opportunità sono distribuite in maniera così ineguale ? Come possiamo aiutare questi bambini e giovani, questi adulti, in maniera concreta, a realizzare i loro sogni? Spostarsi in un Paese, o in un continente diverso, quando non è una scelta, significa essere costretti a rinunciare a tutte le proprie certezze. Perdere il legame con le persone che si amano ed ogni tipo di sicurezza. Equivale a convertirsi a uno stile di vita diverso, a diversi codici di interazione, lingua e condizioni climatiche. Per coloro che hanno perso la speranza di tornare, tutto ciò che è rimasto è il coraggio di provare ad integrarsi e provvedere all’educazione ed al benessere della propria famiglia; il coraggio di superare lo stigma di essere un “rifugiato”. Un’esistenza senza la fastidiosa sensazione di essere la presenza indesiderata o la notizia che nessuno vuole sentire.


BEIRUT (secondo giorno) 
– Iniziamo la giornata incontrando il team del programma di reinsediamento e, dopo una breve conversazione con il delegato dell’UNHCR, andiamo a visitare Ahmed e la sua famiglia, che verranno reinsediati in Italia. Negli ultimi due anni ha vissuto con la moglie e i loro sei bambini in una stanza di 12 metri quadrati sul tetto di una fabbrica di tacchi per scarpe. Per entrare passiamo dalla porta sul retro della fabbrica, camminando accanto a scaffali alti fino al soffitto, pieni di scatole con centinaia di migliaia tacchi di plastica. I ragazzi non sono autorizzati a uscire di casa fino alle due del pomeriggio perché alcuni dei dipendenti della fabbrica lavorano sul tetto in una stanza adiacente, utilizzando sostanze chimiche.

Ahmed e la sua famiglia non sanno ancora esattamente dove andranno a vivere in Italia, ma sanno che sono stati scelti per la loro condizione di vulnerabilità. Accogliendoci nella stanza, il padre prende subito in mano documenti che descrivono le loro condizioni di salute, fogli d’ospedale, ricette mediche, la copia della loro registrazione come rifugiati con l’UNHCR. La figlia più giovane soffre di una malformazione alla gamba. Ha 3 anni, la stessa età di mio figlio. Ci spiegano che ogni volta che la bambina sente il rumore di un aereo, ha un attacco di panico.

I loro sei bambini non possono frequentare la scuola perché si trova troppo lontano da dove vivono e non possono permettersi i costi di trasporto. Il padre ci racconta che, fin quando è stato possibile, era lui stesso ad accompagnarli a piedi, portando tutte le loro borse.

Ahmed e la sua famiglia sono pieni di domande sulla loro partenza per l’Italia. Insieme a Carlotta Sami, portavoce UNHCR, cerchiamo di spiegargli come funzionerà la procedura. Spero che troveranno un pò di conforto nel sapere che non verranno lasciati soli. Non vedo l’ora di incontrarli di nuovo in Italia.

Più tardi raggiungiamo un bellissimo centro dove l’UNHCR, con il partner IRC (International Rescue Committee) organizza programmi formativi ed attività ricreative per bambini che vivono in strada o che sono costretti a lavorare. Qui l’arte viene utilizzata per creare spazi dove i ragazzi si sentono sicuri e possono esprimere liberamente le loro opinioni. Quanta gioia vedo negli occhi dei bambini mentre giocano. E quanta tristezza quando, chiedendogli di raccontarci i loro sogni, una bambina di 8 anni, una dei 1.500 che lavorano in Libano vendendo rose per strada, è scoppiata in lacrime dicendoci che il suo era quello di tornare a casa, in Siria.

L’ultima tappa della missione ci porta fuori città, sulle colline a sud del Libano. Andiamo a visitare la famiglia di Hajar, che verrà presto reinsediata nel Regno Unito. Tutto quello che sogna sono possibilità d’istruzione e cure mediche per il suo bambino, che soffre di disturbo da deficit di attenzione e iperattività causato da stress post-traumatico. Il ragazzo invece che è stato colpito da una pallottola alla gamba, sogna di poter andare in bicicletta. Quello che mi sorprende qui, come nella casa di Ahmed visitata al mattino, è che quando chiediamo se hanno delle domande per noi, invece di parlare delle loro necessità personali, parlano solo dei familiari, dei vicini di casa, afflitti anche loro da problemi di salute, o legali.

Mentre sto lasciando il Libano, le storie che ho sentito mi rimbombano nella testa. Una donna che scompare dopo aver riportato i maltrattamenti subiti dall’uomo che le dava riparo. Un’altra donna colpita da un proiettile di fronte ai suoi bambini quand’era ancora in Siria e rimasta paralizzata. Il marito che, prendendosi cura di lei a tempo pieno, non riesce più a lavorare per sostenere la famiglia.

È ironico quanto sia breve la nostra memoria. Sembriamo esserci dimenticati l’esempio dei 115.000 cittadini polacchi rifugiati di guerra in Iran nel 1942, e dei 20.000 che sono fuggiti dall’Ungheria nel 1956 per essere reinsediati in Austria e in Yugoslavia. Questa non è solo una crisi di rifugiati, è anche una crisi di solidarietà europea. Se chiudiamo i confini alle persone che sono costrette a fuggire, purtroppo li stiamo solo spingendo ad utilizzare vie illegali e potenzialmente fatali, contribuendo ad alimentare il traffico di esseri umani, un business che ha un costo umano enorme e insopportabile.

L’UNHCR crede fermamente che canali d’accesso legale come la sponsorizzazione privata possano servire da complemento ai tradizionali programmi di reinsediamento. La sensibilità mostrata dai cittadini dell’Unione europea per la difficile situazione dei rifugiati fa presagire buone possibilità di sviluppo tali programmi. Un’opzione di valore, che collega direttamente la famiglia di richiedenti asilo e la famiglia ospitante, che fornisce sostegno finanziario, ma aiuta anche a trovare scuole e servizi necessari e promuovere l’integrazione reale sul territorio.

Mi piacerebbe trovare più modi per celebrare gli instancabili sforzi dell’UNHCR sul campo. Ogni giorno affrontano questa catastrofe umanitaria, aiutando le persone coinvolte a vivere nel migliore dei modi possibili. Vorrei trovare più modi di incoraggiarli: svolgono un lavoro incredibile, con passione ed energia ed hanno moltissime responsabilità sulle loro spalle. Rendo onore alla resilienza, alla forza e al coraggio del popolo siriano e di tutte le persone rifugiate nel mondo.